Mountain GuideFrancesco Salvaterra

La leggendaria Big Bang

A volte le scalate capitate quasi per caso sono le più belle. Oggi con Franz Nardelli l’idea era di fare una via allo scoglio di Boazzo ma verso le 8 la giornata sembrava fredda e coperta. Opzione B: falesia. Poi mi viene un’ ispirazione… e se andassimo alla Big Bang?! Ah no, le bambine vogliono andare a raccogliere le castagne nel pomeriggio, e falesia sia.

Porto le due pesti all’asilo e torno a casa per prendere lo zaino e salutare Chiara, giusto in tempo per scoprire che invece nel pomeriggio andranno al compleanno di un amichetto. Allora la via ci starebbe! Intanto butto tutto in macchina, poi vedremo. Il caffè con brioches e spremuta al bar Miori è una tradizione, con Franz non parliamo della via ma della disastrosa situazione in Palestina. Conveniamo entrambi che non sopportiamo gli israeliani, non solo per quello che sta accadendo ma perché ne abbiamo conosciuti tanti nei nostri viaggi in sud america e non ci sono mai piaciuti. L’israeliano medio è come un texano a livello di arroganza e consumismo ma con una shakerata di ideologie religiose da razza eletta e un lavaggio del cervello militare.

Non che prenda alla leggera la Big Bang, è da almeno 15 anni che voglio ripeterla. Forse per una volta ho sopravvalutato l’impegno di una salita, ma è stato un bene perché me la sono veramente goduta.

La linea è perfetta, assieme alla Cesare Levis aperta due anni prima (1978) è la linea della parete, i tre tetti a scala più famosi di Arco. Tra una cosa e l’altra arriviamo alla base dello zoccolo alle 11 passate.

Franz Nardelli sul secondo scabroso tiro della via Traudi.

Il primo tratto in comune con molte vie lo conosciamo bene e in breve siamo all’attacco. A sinistra sale la via dell’Angelo, a destra la nostra via. La Big Bang nei primi due tiri percorre la Traudi, un itinerario del 67’ tutt’ora molto impegnativo, aperto dallo sciatore estremo Heini Holzer e da Renato Reali. Mentre salgo da secondo e tiro giù tutte le pietre che riesco mi affiora un ricordo. Avevo fatto la Traudi portandoci una mia compagna di classe, Roberta. Io avevo iniziato da pochi anni e lei praticamente nemmeno arrampicava, dopo una via del genere deve aver smesso definitivamente. Brava guida ero stato, però mica mi pagava e io volevo fare quelle vie lì. Il terzo tiro è leggermente più impegnativo, ma è ben proteggibile. Queste tre lunghezze iniziali sono decisamente le più pericolose della salita per via della roccia spesso friabile o erbosa e delle possibilità di proteggersi non abbondanti. Le soste hanno tutte tre o quattro chiodi che controlliamo e integriamo con friends, nel complesso sono buone. Arrivati sotto la fessura rossa che porta ai tetti facciamo una pausa e tiriamo fuori il cordino per recuperare lo zaino con il trapano. La mia intenzione è di ripetere la via anche per renderla più sicura e frequentabile, è un peccato che una linea simile sia quasi abbandonata.

Sul web se ne leggono di tutti i colori, riassumendo sembra che sul tiro dei tetti manchino dei chiodi a pressione e che ci vogliano dei friends molto grandi per passare. Vedremo.

La fessura rossa che porta ai tetti è di roccia molto buona ed è veramente bella, con dei passaggi di incastro di pugno divertenti anche perché con i friends ci si protegge bene. Avevo letto che Giuliano in apertura aveva aperto il tiro con un unica protezione, un chiodo. A metà strada un masso di discrete dimensioni si era staccato tra le sue mani e per non farlo precipitare sul compagno lo schiacciava con il petto e le gambe contro la parete. In quella precaria situazione era riuscito a tirare fuori un chiodo e piantarlo in una fessura, in extremis.

Anche se non sono male come scalatore non saprei proprio come fare a salire da un tiro così con una sola protezione, impossibile per la mia psiche, senza pensare che la roccia doveva essere molto più precaria al primo passaggio. Alcuni alpinisti di quegli anni erano semplicemente abituati a proteggersi poco, facevano solitarie, non avevano i friends e vivevano per scalare. Era un’ epoca che preparava alpinisti diversi dalle generazioni successive e forse è un bene se si pensa che quasi nessuno al giorno d’oggi si prende più certi rischi. Arrivo sulla fatidica sosta appesa: quattro ottimi chiodi a pressione originali e uno spit a mano messo di recente su una scaglia di roccia che suona vuota.

Visto che è una sosta appesa e i chiodi a pressione sono degli affarini difficili da valutare decido di mettere un fix inox da 10mm. I pressione hanno una bella cera ma pensando ai ripetitori decido che è un compromesso accettabile. Recupero il saccone, metto il fix, tolgo quello maldestro di cui è meglio non fidarsi e recupero Franz che disgaggia il tiro dall’unica lama precaria.

Sul tiro del tetto parto senza martello e chiodi, voglio provare a salire in libera e se ci sarà da mettere fix per sostituire chiodi a pressione mancanti o ribattere chiodi normali ci caleremo dalla sosta a monte per farlo.

Il primo tetto è ben protetto da una clessidra (passarci un cordone non deve essere stato facile), per arrivare sotto il secondo c’è un’inaspettata fessura orizzontale che aiuta non poco. Il secondo è più difficile ma è ben protetto. In apertura Giuliano aveva un grosso cuneo, è rimasto per molti anni verso la fine del tiro ma ora non c’è più. Secondo me scalava perlopiù in libera poi piantava il cuneo alla bell’è meglio e appeso a questo, con le mani libere piantava il chiodo a pressione con il punteruolo. Non ci sono molte altre maniere per salire in apertura una fessura così, anche disponendo di friends di nuova generazione perchè è quasi sempre troppo larga anche per il n 6. Sotto al terzo tetto, piantati nella fessura orizzontale ci sono 4 chiodi a comporre una sosta decisamente poco sensata perché scomodissima e a meno di dieci metri da quella precedente. Forse la sosta è stata attrezzata da qualcuno che non è riuscito a proseguire e si è fatto calare alla precedente. Il traverso sotto al terzo tetto è il tratto chiave e si capisce subito guardandolo. Un buon chiodo a pressione protegge il passaggio e poi il successivo è fuori dal bordo a circa un metro e mezzo o di distanza. Piedi alti, tiro la fessura con una dulfer rovescia e mi fido di due piccoli ma provvidenziali appoggi, è solo un passo e preso il bordo sono fuori dove incastrando un ginocchio per riposare rinvio il primo di tre chiodi in rapida successione, che passaggio spettacolare! Prima di partire mi ero liberato tutto l’imbrago dalla ferraglia tenendola su una fettuccia a tracolla, sulla destra, così mi riesco a incastrare per bene nella fessura e posso mollare le mani per prendere fiato e rinviare tutti i chiodi. Sul traverso, appena dopo il chiodo a pressione ho notato un buchetto di punteruolo appena accennato per due o tre millimetri. Non mi sembra che si sia rotta la roccia facendo fuoriuscire il chiodo, secondo me è più probabile che il primo salitore abbia iniziato a chiodare ma poi abbia lasciato perdere, o per la posizione scomoda o per il punteruolo storto e rovinato. Giuliano avrà fatto il passaggio in libera, di certo ne sarebbe stato capace, o forse ha usato il cuneo, in ogni caso non ci sono buchi profondi di chiodi fuoriusciti.

Il tetti a scala più famosi della valle del Sarca.

Fuori dal terzo tetto uno dei chiodi a pressione sporge di parecchio, lo stesso Giuliano mi aveva raccontato che il punteruolo si era piegato e non riusciva più a fare buchi profondi a sufficienza. Questa via era stata aperta in giornata senza sopralluoghi precedenti, se si pensa all’ambiente opprimente, alle difficoltà tecniche, friabilità e chiodatura minima, solo 8 chiodi di passaggio (tra pressione e normali) era stato un vero exploit. Per mettere 4 chiodi a pressione (più 4 in sosta) ci vuole almeno un’ ora e mezza, dieci minuti a buco è un tempo medio da una posizione comoda.

Ancora qualche movimento striscante portano a un buon chiodo normale e a un ultimo tettino fessurato, dove metto l’unico friends sul tiro, un giallo. Tutti gli altri me li sono scarrozzati per niente perché non entrano da nessuna parte. La sosta dei primi salitori e in alto a sinistra, si vede ancora oggi un cuneo, ma ne è stata attrezzata una più in basso e a destra che permette di vedere il compagno e agevola per il tiro successivo. Anche Franz mi raggiunge in libera senza problemi. Il tiro rimane così com’è, le protezioni sono solide e non è per nulla pericoloso, se si cade si vola nel vuoto. Certo non è un tiro che si può salire in A0, non lo è mai stato tantomeno quando è stato aperto. Semplicemente il VI+ obbligatorio dichiarato dai primi salitori e rimasto sulle guide di arco da sempre va alzato di un grado secco, come per molte altre vie di Stenghel. Il VI era il limite estremo della scala chiusa in auge all’epoca, ma ognuno ha un limite estremo diverso dall’altro.

Il penultimo tiro è un bel diedro discontinuo di roccia compatta, qui negli anni 90’ uno scalatore è morto per una brutta caduta, probabilmente dovuta a un appiglio sbagliato, anche questo ha contribuito alla brutta nomea della via. C’è addirittura chi ha detto che è lo scalatore ha fatto un volo fatale per la fuoriuscita dei chiodi a pressione sul tiro precedente, baggianate. L’ultima lunghezza, abbastanza breve è un caminetto divertente, che porta alla dimensione orizzontale del bosco di ceduo sotto la parete est del monte Casale.

Un piccolo capolavoro alpinistico, non per tutti ma nemmeno per pochi, con un carattere ancora in grado di offrire emozioni e un traguardo non scontato, bello no?!

Per la RELAZIONE della via guarda qui.

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