Mountain GuideFrancesco Salvaterra

Oggioni-Aiazzi alla Torre Bignami, prima ripetizione.

Quando dieci anni fa ho cominciato a scalare e fare alpinismo mi sono appassionato fin da subito ad un angolo sperduto del gruppo di Presanella, la val Gabbiolo.

Riassumendo si tratta di una valle con pareti alte dai 200 ai 700m, di roccia granitica che va dal molto compatta alla sagra del pilastrino dondolante. E’ poco frequentata, avvicinamenti lunghi e faticosi, si trovano pochissimi chiodi come informazioni ma negli anni vi sono gravitati nomi come Walter Bonatti, Andrea Oggioni, Jovsè Aiazzi, Carlo Mauri, Armando Aste, Vasco Taldo, solo per citare i più famosi.

In rosso la nostra linea di salita e in bianco le calate dalla parete SE.

Con tutta la bella roccia relativamente comoda che ho vicino a casa, ad esempio nelle dolomiti di Brenta, non so perché mi sia venuta voglia di scalare da quelle parti…Vi sono stato molte volte, aprendo vie nuove, scalando prime solitarie e più recentemente portandoci i pochi clienti in grado di affrontare certi avvicinamenti e di tornare sulle loro gambe. Potrei dire che queste montagne sono state una buona scuola per poi affrontare anni di scalate in Patagonia: la Punta Graffer non è grande come il Fitz Roy ma ci sono parecchie similitudini.

C’è sempre stata una via che mi stuzzicava la curiosità, la Oggioni-Aiazzi sulla Torre Bignami. Sulla guida edita da Pericle Sacchi nel 1977, divisa in ascensioni facili, medie e difficili, questa via aperta il 14/15 settembre 1956 occupa l’ultima pagina ed è descritta come irripetuta, 350m fino al 6° superiore e artificiale aperta con 90 chiodi di cui 9 lasciati. Avevo scalato altre vie sulla stessa parete ma questa un po’ per l’aurea di mistero e impegno, un po’ per la qualità della roccia che a prima vista non sembra delle migliori è sempre rimasta in un cassetto delle cose da fare. Qualche anno fa in una ricerca alla biblioteca della SAT di Trento mi ero anche imbattuto in un racconto originale dei primi salitori, scritto da Andrea Oggioni. E’ una bella storia che trasmette passione e mi fa crescere l’ispirazione di provare la ripetizione. Per le informazioni che avevo a disposizione nessuno aveva ancora ripetuto la via, ma qualche sicurezza in più si potrebbe avere solo valutando palmo a palmo il materiale lasciato sulla via.

La relazione riportata sulla guida Sacchi del 77′.

Questa primavera, durante una spedizione al monte Alpamajo in Perù dove facevo la guida a un gruppo di 4 scalatori si presenta l’occasione giusta: Antonio è un alpinista navigato di quelli con un curriculum di salite che fanno invidia anche ai professionisti, che spazia dalle Dolomiti al Monte Bianco. Certo una via del genere con le incognite che comporta non è proprio il banco di prova ideale per conoscersi in parete ma a istinto Antonio mi sembra il tipo giusto quindi gli lancio la proposta per l’estate in arrivo. Una prima ripetizione di una via di Andrea Oggioni e Jovsè Aiazzi a distanza di più di 60 anni è un genere più unico che raro e anche l’ambiente selvaggio lo convince a contattarmi.

Attraversando il canale che porta ai piedi della Torre Bignami.

Fissate le date, il meteo è dalla nostra, pronti e via! Decidiamo di scalare la via in due giorni, per poter fare le cose con relativa calma e goderci la montagna. Per farlo ovviamente prevediamo un bivacco in parete, al pari dei primi salitori. Stare leggeri in questi casi è importante: il nostro materiale prevede due sacchi a gelo di meno di 800gr (simpatico nomignolo riciclato dai racconti patagonici di Ermanno Salvaterra), materassini arrotolabili, pane, formaggio, salame e frutta secca (niente fornello), 4 lt di acqua scarsi, mezze corde, una serie abbondante di friends, molti stoppers, un martello e una decina di chiodi. Visto che ci piacerebbe scalare la via “in libera” durante la scalata per non appesantirci ci trasciniamo dietro un saccone con le nostre cose usando un cordino da 50mt che poi taglieremo per attrezzare un lunga linea di calate. Domenica partiamo alle 7.30 dal rifugio Stella Alpina in val Genova, di quota 1450m, due ore di ripido e poco tracciato sentiero ci portano alla zona dove di solito si bivacca in alta val Gabbiolo. Da li un altra oretta di pietraie portano all’imbocco del canalone dove iniziamo a scalare. I primi 250m circa sono uno zoccolo dove a tratti si cammina e a tratti si scala fino al 3° grado, con lo zaino carico comunque non è banale e ci vuole il suo tempo per arrivare nei pressi di un ripido canalone di neve ghiacciata che bisogna attraversare per arrivare alla base della parete vera e propria. Per stare leggeri abbiamo portato una piccozza e un paio di ramponi di alluminio in due, la pendenza non è alta e anche con un rampone solo riusciamo a fare senza problemi un tiro di 60m sufficiente per raggiungere le rocce basali. Ore 14 passate, incastrati tra roccia e nevaio lasciamo ramponi e piccozza alla base e iniziamo a scalare da una fessura che parte bella dura (un bel 5+/6 come riscaldamento) dove dopo pochi mt troviamo un vecchio cuneo, ottimo inizio!

Antonio su uno dei primi tiri.

Per i primi 4 tiri degli 11 tiri che faremo la via di Oggioni è stata ripresa da altri scalatori che poi hanno aperto delle altre vie sulla dx della parete. Ho già salito questo tratto in precedenza e andiamo spediti ma non troppo: la roccia sarebbe anche compatta ma su ogni piccolo terrazzino sono in bilico blocchi di granito di tutte le misure che aspettano solo di essere mossi per finire di sotto, risulta abbastanza immediata l’importanza di fare sempre le soste in zone riparate. La via segue il facile nel difficile come solo scalando con gli scarponi e molto intuito si riusciva a fare, peccato che spesso questo significhi infilarsi nelle zone di roccia più malsicura. Arriva il momento in cui avanziamo in una zona della parete a me sconosciuta: sarebbe una ovest e vista l’ora inoltrata speravamo di godere di un bel sole invece siamo quasi sempre avvolti nelle nebbie. Dopo un traverso facile (meno facile è gestire il saccone e in questo Antonio ha avuto una pazienza bestiale) arriviamo a un terrazzino dove mi appresto a partire ma non so bene che direzione prendere, la relazione dei primi salitori fa ridere perché parla di diedri difficili ma in questa zona di parete partono diedri ogni metro in direzioni parallele. “Un chiodo!” E’ Antonio a vedere l’anello che occhieggia in una fessura a una decina di metri di distanza. Siamo gasati perché è la prima testimonianza di passaggio che troviamo, ci sentiamo degli archeologi, lo raggiungo ed effettivamente è un vecchio cassin da calcare che al pari degli altri 5 che troveremo sulla via, esce dalla roccia muovendolo con le dita.

Uno dei chiodi dei primi salitori.

Dopo averlo sostituito con uno più largo proseguo per fessure e diedrini che si fanno più ripidi: un bel 6° sostenuto fino a una sosta aerea. Il tiro successivo è lungo e duro: una fessura di dita e una placca compatta ci fanno sudare per guadagnare un buon terrazzino, l’ultimo tratto è un bel 6b obbligatorio e qui probabilmente siamo andati fuori via perché non era scalabile in artificiale, poco male: sulla dx si vede chiaramente dove proseguire.

Su roccia finalmene compatta nella parte alta della via.

La linea nella parte alta della parete, foto fatta dalla cima della Punta Graffer.

Sono le 8 passate e il terrazzino dove siamo non invoglia molto al bivacco: è stretto, spiovente ed esposto ai quattro venti. Sembra che alla cima manchino tre tiri quindi decidiamo di provare a uscire: un traverso dove troviamo un altro chiodo strategico porta alla base di un diedro rosso e strapiombante dall’aria dura. Dopo pochi metri trovo un chiodo a “u”, è lungo almeno 50cm, una sciabola che si potrebbe usare anche come fittone da neve. Lo ripianto e comincio a salire strusciandomi a qualche maniera su per il diedro: un altro chiodo che non riesco a ribattere e un cuneo inservibile a cui affianco un provvidenziale friends, strappo la giacca e soffiando per la fatica e per la qualità della roccia precaria riesco a saltare fuori “ a vista” anche sull’ultimo tratto difficile, sarà stato un 6a+ ma mi impegna come un 7a. Troviamo 5 chiodi e ne lasciamo in via altri 5 (tutti quelli che usiamo) più 1 friend  che ci rimane incastrato sul tiro più duro. L’ultimo tiro è una passeggiata e alle 9.30 con le ultime luci ci abbracciamo sulla cima, a 3200m. Passiamo la notte in una fortificazione della prima guerra mondiale costruita con assi e pietre esattamente in cima: un vero hotel a 4 stelle comodo e riparato dal vento.

Al mattino ci trastulliamo con calma al sole dell’alba, con vista sulla Presanella riusciamo a scorgere degli alpinisti presumibilmente appena usciti dallo scivolo nord e poi come programmato iniziamo a scendere dalla parete est. La discesa “classica” sarebbe da un canalone ghiacciato piuttosto orrido dove occorrerebbero due paia di ramponi e piccozze, inoltre è in parte esposto alla caduta di sassi, da qui la scelta di attrezzare una linea di calate ex novo. Nove doppie comode e dove è difficile incastrare le corde ci depositano alla base dove recuperiamo ramponi e piccozze, siamo anche più leggeri per il rientro perché abbiamo abbandonato tutti i chiodi, stopper e il cordino di recupero!

Calate lungo la parete est, nei pressi della via Sacchi 1961.

Relazione della linea di calate, comoda anche per le altre vie perchè si può lasciare tutto alla base.

Una gran bella avventura! Lancio una dritta agli alpinisti in vena di qualcosa di tosto: in val Gabbiolo secondo me c’è ancora una “Bonatti” e una “Mauri” in attesa di una prima ripetizione.

Soprattutto per la Bonatti però scordatevi un arrampicata piacevole e su buona roccia perché è stata aperta in condizioni invernali seguendo profondi camini quindi immagino che non sia molto “plaisir”. E’ stata salita da Clemente Maffei (primo salitore del monte Sarmiento con Mauri) e un Bonatti appena tornato dalle vicende del K2, se ci ha messo un briciolo dell’energia distruttiva che lo ha portato in vetta al pilastro del Dru (aperto poco dopo) non deve essere una via facile…

Francesco Salvaterra 10 luglio 2018

In vetta giusti giusti con l’ultima luce.

 

 

Pubblico di seguito la trascrizione fedele del racconto originale di Andrea Oggioni.

Rivista mensile CAI luglio-agosto 1957

Sulla ovest della Torre Bignami di Andrea Oggioni

« (…) Ritorniamo al lavoro, io al mio di macchinista, Josve al suo di commerciante e aspettiamo. Aspettiamo i primi di settembre , giusto il tempo per tentare l’ultima carta, quella che abbiamo in serbo sin dall’anno scorso: cioè la parete ovest della torre Bignami nel gruppo della Presanella.

Mezzogiorno di martedì 11 settembre: con Josve Aiazzi raggiungo la val Gabbiolo, una valle laterale alla vasta e pittoresca val di Genova, nel gruppo della Presanella. Abbiamo trascinato con noi due enormi zaini con due corde di nylon di 40 metri, 40 chiodi, 8 cunei di legno, 20 moschettoni in duralluminio, 3 staffe, 3 martelli, indumenti a piumino di nailon, sacchi da bivacco e molti viveri: zucchero, cioccolata, noccioline salate, lardo affumicato, uva passita, the e dadi per brodo. Tutto questo occorre per affrontare la parete ovest della torre Bignami. Il pomeriggio lo dedichiamo allo studio della parete e alla sera ci infiliamo nei nostri sacchi, al riparo di un masso, in attesa dell’alba. Ci svegliamo mercoledì alle cinque, ma il sopraggingere del brutto tempo ci fa rinunciare alla parete. Lasciato il materiale sotto il sasso, scendiamo in val di Genova. Giù nella valle passiamo giornate fra fortissime raffiche di vento e piovaschi, cercando di far trascorrere il tempo scattando fotografie a colori e cercando funghi. Giovedì pomeriggio, cessato il vento, dopo una buona camminata, raggiungiamo il tetto roccioso al riparo del quale si trova il nostro materiale. Siamo di nuovo in val Gabbiolo a circa 2400 metri. Durante la notte si scatena di nuovo un fortissimo vento accompagnato da raffiche d’acqua, ma noi sotto lo strapiombo siamo ben riparati. Venerdì, dopo aver passato la notte dormendo per terra, ci svegliamo alle cinque. Il vento è cessato e il cielo è completamente stellato. Dopo aver fatto colazione ci carichiamo del nostro materiale e raggiungiamo la base della parete, cioè all’inizio di un canalone. Ci leghiamo con una sola corda e nello spazio di un’ora e mezza percorriamo le rocce facili del canale raggiungendo una colata di ghiaccio alla base della torre: infilati i ramponi in breve tempo attraversiamo la colata di ghiaccio e raggiungiamo la parete nel punto più basso della torre. Sopra di noi si alza un muro verticale di granito dell’altezza di circa 300 metri mai scalato e su di esso vogliamo avventurarci. E’ una parete vergine piena di fascino e di mistero: su quelle rocce che, da quando mondo è mondo, non sono mai state toccate dalle mani dell’uomo, noi vogliamo arrampicarci, piantare nelle sue fenditure chiodi e cunei a colpi di martello e metro per metro innalzarci fino alla vetta per sentirci su di essa più forti e più vivi: sentiremo la gioia di aver vinto coi nostri mezzi umani una cosa che appartiene al mondo ma riservata a pochi.

Alle nove iniziamo l’arrampicata, ci alziamo sul bianco granito che squarcia per un buon tratto lo spigolo sud. La roccia è malsicura e bisogna alzarsi con cautela: dopo due ore di sforzi raggiungiamo le placche grigie. Qui comincia la musica a suon di martello sulla testa dei chiodi: affrontiamo fessure e diedri superandoli per poi trovare placche lisce da superare in arrampicata libera e via sempre così. La vetta si avvicina a poco a poco: il sole ci investe aumentando l’arsura. La gola non mi dà più saliva; alle 16 mi fermo su di un terrazzo: raggiunto da Josve tiro fuori dallo zaino la borraccia del thé e ne beviamo un sorso ciascuno, indi continuo l’arrampicata.

Superato un altro tratto difficilissimo, ci accorgiamo che la vetta è più vicina di quanto credessimo: arrampichiamo ora molto veloci, con la speranza di evitare il bivacco in parete, ma un altro diedro mi obbliga a una lunga manovra di chiodi e corde. Il sole sta tramontando: è questo un tramonto di fuoco che tinge di rosso tutte le vette che ci circondano naturalmente chi gode di questo spettacolo è Jovse mentre io, concentrato nella salita, mi devo accontentare di qualche occhiata.

Le tenebre sono già calate quando ci riuniamo su un vasto terrazzo molto aereo posto sullo spigolo sud: la vetta è a 40 metri. Favoriti dal chiaro di luna potremmo raggiungerla subito ma il posto ove siamo, ideale per bivaccare, ci fa cambiare parere. Ci infiliamo nei nostri indumenti di nylon imbottiti di piumino e consumiamo la nostra cena a base di uva passita e noccioline salate: illuminati dalla chiarissima luna che investe coi suoi raggi il nostro terrazzo, ci sdraiamo sul duro granito in attesa dell’alba.

Pensate: sdraiati sul granito ammirando la luna, scrutando il cielo stellato, contando le stelle cadenti, vedendo gli immensi ghiacciai che riflettono i raggi lunari, e i boschi sottostanti nella penombra delle valli dal nostro spalto posto 700 metri sopra il vuoto ha qualcosa di fiabesco… E possiamo godere di queste visioni fino all’alba anche perché per tutta la notte è stato impossibile chiudere occhio: i crampi che ci prendono i muscoli e la tensione nervosa hanno fugato completamente il sonno.

Sabato alle 6 usciamo dai sacchi;le montagne che ci circondano sembrano dipinte di rosa, un’alba magnifica: un’alba che ci ricompensa dell’attesa notturna. Ci leghiamo nuovamente ed in meno di mezz’ora siamo sulla vetta della Torre Bignami alta 3200m.

Che sole!… questi sono i momenti più belli per l’alpinista e ci mettiamo a chiacchierare felici. Discorriamo di ciò che abbiamo affrontato sulla parete, del materiale usato e delle difficoltà incontrate. Questa parete che ci tenne avvinghiati a sé per 24 ore richiedendo l’uso di 90 chiodi, di cui 9 lasciati, è da classificarsi di 6°grado.

Pur nella gioia del momento ricordiamo un nostro caro amico morto pochi giorni prima sul Crozzon di Brenta: pare che egli sia li con noi e che ci sorrida… Pier Francesco Faccin. Ecco, la chiameremo così la nostra via dedicandola alla sua memoria.

E scaldati da un bellissimo sole, scendiamo passo passo il ghiacciaio di Nardis lasciando alle spalle la nostra parete. Ci allontaniamo con tristezza e ci sembra di abbandonare su di essa qualcosa di noi.»

Andrea Oggioni (CAAI-sez di Monza)

 

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